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Giovanni Bozzolo
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1975: Raid Lodi- Trieste in barca !
da sabato 23 a sabato 30 agosto 1975
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Una sera intorno a ferragosto bighelloniamo alla Canottieri Adda ed a Mino Forlani brilla la luminosa idea: andare a Trieste in barca.
Immediato entusiasmo di un folto gruppo di incoscienti e ci si trova nella necessità di trovare un “ventiquattro con triplo timoniere”.
Dopo un giorno o due il numero degli aspiranti si è ridotto e decidiamo di chiedere l’ “otto con” dei Vigili del Fuoco, che promettono di prestarcelo. Già incominciamo a divertirci all’idea dei “casini” che faremo su una Jole da otto lunga 15 metri, considerando che uno solo di noi ha vogato, in tempi remoti, su un’imbarcazione simile.
Purtroppo altre defezioni si verificano e ci ritroviamo in sei.

Decidiamo allora di usare la vecchia “Anna”, una jole quattro-con, aggiungendo un sedile alle spalle del timoniere.
Ci buttiamo quindi nei lavori di ‘restauro’, una vera opera di antiquariato data la vetustà della barca, regalata nel ’29 (anno VII ! ) dalla Banca Popolare Agricola di Lodi alla Canottieri Adda. Nel complesso l’imbarcazione è ancora valida e, con un po’ di assicelle e di resina poliestere delle canoe, tiene bene l’acqua e terrà fino a Trieste con non troppe riparazioni lungo la strada.

Negli intervalli delle riparazioni la jole viene posta in Adda per un serio e prolungato allenamento di tre sere, sotto la guida di Bruno Pilatone e le urla di Angelo Polledri, grande allenatore dei veri canottieri di Lodi. Al termine abbiamo raggiunto un perfetto assieme e riusciamo abbastanza spesso a non prendere il remo nelle costole o sui denti. Naturalmente, malgrado la perfezione da noi raggiunta, molti disfattisti sostengono, che arriveremo al massimo a Cremona, dove tolti di peso dalla barca, verremo avviati in infermeria.
Qualche contestazione giunge pure dalle mogli e fidanzate, ma a questo siamo già allenati!

Il giorno prima della partenza al povero Mino, promotore dell’iniziativa, viene rifiutata la settimana di ferie e deve abbandonare. Ci seguirà però per un buon tratto con la bottiglia della grappa, che ci servirà a sentire un po’ meno la pioggia, che ci farà sempre buona compagnia. Dopo un’affannosa ricerca tra gli amici di sacchi della spazzatura, siamo pronti a partire.

I sacchi ci serviranno per difendere dall’acqua i nostri effetti personali e noi stessi dopo aver aperto buchi per testa e braccia quando scendiamo di barca. Alla sera, sembriamo spazzatura con altra spazzatura sulle spalle.
La nostra eleganza comunque è compensata dal fatto che la pioggia non riesce mai a passare sotto la nostra pelle.

Finalmente il sabato si parte; alle otto i cinque baldi giovani (si fa per dire – età media 37 anni abbondanti) si ritrovano alla Canottieri, assistiti da amici e qualche moglie, quasi inconsolabile: naturalmente solo per il pensiero dei reumatismi ed acciacchi vari da curare al marito una volta tornato vincitore.
Alle nove meno un quarto si decide di mettersi al remo, dato che l’acqua diluviante, iniziata cinque minuti prima dell’ora ufficiale della partenza (8,30) non accenna a smettere. Foto ricordo, agitare di mani, sorrisetti ironici e ……”tanto oltre Cremona “…. .

Subito dalle prime battute Romano si sente le sue: i soliti compagni lo accusano di non stare a tempo e di accarezzare l’acqua con troppa dolcezza. Si riscatta subito, appena passa al timone, entrando in un giro d’acqua e mandando la barca dentro un cespuglio per cui i due remi di sinistra vanno a sbattere nelle costole dei rispettivi galeotti. Pieni di comprensione per l’errore di un amico gli altri quattro lo gratificano dei più volgari insulti. L’acqua nel frattempo, colando sulla schiena e sulla pancia, ci è entrata anche nelle regioni più recondite. Ci diamo il cambio al timone ogni mezzora, passando dalla quarta voga a capovoga.

Ci eravamo preparati, essendo previsti sei vogatori, tre che vogavano sempre a destra e gli altri tre sempre a sinistra. In sei, ad ogni ora c’era mezz’ora di riposo. Rimasti in cinque ci siamo improvvisati rematori ambivalenti e con un riposo ogni due ore di voga.

Al ponte di barche di Cavenago iniziamo una perfetta manovra per imbroccarlo a rovescio: il timoniere ordina con molta autorità, ”remi pari avanti e dispari contro!”; solo che nessuno sa se è pari o dispari. Comunque il ponte si salva e non viene affondato e noi riceviamo in premio una bottiglia di grappa da Mino che ci aspettava sul ponte con moglie, figli e amici. Con la grappa arriva anche una pompa per svuotare la barca dalla pioggia che continua a cadere. A mezzogiorno troviamo un pontiletto traballante; vi leghiamo la barca e raggiungiamo una cascina, vicina a Cavacurta. La padrona, evidentemente sola e vogliosa di compagnia maschile, ci accoglie a braccia aperte, consigliandoci di continuare sino ad una seconda cascina che si intravvedeva lontana tra la foschia e la pioggia, dove ‘certo’ saremmo stati meglio. Ci rendiamo conto delle sue ottime intenzioni, ma ci infiliamo ugualmente nel suo fienile. Vincenzo vorrebbe infilarsi da qualche altra parte, ma noi ci opponiamo egoisticamente, perché non vogliamo sprechi di energie se non sul remo.

Semisepolti nella paglia per scaldarci, ingolliamo panini e vino, e facciamo scendere il livello della grappa senza neppure sentirla; col freddo che abbiamo addosso, sembra acqua, Forse il ritorno alla natura, nell’ambiente un po’ selvaggio del fiume, forse le difficoltà di digestione fanno scomparire quel po’ di educazione che di solito fingiamo di avere, e rumori diversi e di vario tipo partono dai membri della spedizione. Cadute ormai le barriere della convenzione, da questo momento il viaggio sarà allietato da rumori, e anche il linguaggio si adeguerà. Usciti dalla paglia e ringraziata la cortese ospite, ripartiamo sotto l’acqua.

Da riva ci giungono urla di richiamo e noi, non particolarmente disposti alle relazioni sociali, rispondiamo con un “vai a …..” e quel che segue. Così Mino viene ringraziamo per la grappa e l’assistenza che ci sta facendo dalla mattina. Arriviamo alla cascata di Pizzighettone e, dopo un’educata discussione sul fatto di scendere sulla sponda destra o sulla sinistra, sbarchiamo e veniamo raggiunti dalla famiglia Forlani al completo e da un gruppo di canottieri locali, molto volenterosi. Con tutto questo aiuto scarichiamo la barca e facciamo del nostro meglio per mandarla a fondo, sollevando la prua tanto da immergere la poppa. In compenso piove meno intensamente.
Alle diciotto arriviamo alla canottieri Bissolati, dandoci dentro per far vedere che assieme e potenza abbiamo ancora, ai numerosi amici di Lodi e di Cremona, che ci aspettano sul pontone in riva al Po.

Tuffo in piscina di Riccardo e Paolo Moroni che (non avendo fatto abbastanza movimento) partecipano all’allenamento di pallanuoto.
Renzo Risari della Bissolati ci invita tutti a cena e Paolo Uggè, inappetente, si mangia anche le porzioni dei figli di Mino.
Ci trasferiamo poi nella sala di voga (appena costruita), ormai trasformata da noi nel magazzino dello “strascè”,per dormire. Vedendo le nubi di zanzare ci cospargiamo abbondantemente di Autan. Le zanzare se ne fregano e ci riducono a colabrodi. Vincenzo si rigira nella canoa fissa, dove si è infilato pensando di dormire e gli altri sul pavimento. Solo Polo Moroni non piace alle zanzare.
Non è la notte sognata dopo ottanta km e sette ore di voga.

La mattina alle nove, dopo esserci grattati a lungo le punture ricevute, svuotiamo la barca dell’acqua e ripartiamo. Piove, naturalmente, ed in più c’è un bel vento contrario; ricomincia il turpiloquio.
A mezzogiorno, sotto una pioggia torrenziale, sbarchiamo a Casalmaggiore.

I nostri impermeabili, molto leggeri, sono ormai tutti strappati in basso e pieno di grasso dei carrelli dei sedili. Questa frangia esce dai sacchi della spazzatura. Per alcuni di noi invece, perché non si pensi ad una divisa unica e ad un gruppo paramilitare, i sacchi della spazzatura escono dai gonellini della giacca a vento. Cappellacci, berretti e cappucci, spesso sovrapposti, completano la tenuta.
Al nostro passaggio la gente chiama i vicini di casa per non sghignazzare da sola.

Quando raggiungiamo una trattoria abbiamo già un notevole pubblico. Allaghiamo il locale ed in calzoncini da bagno ci gettiamo su ‘agnoli’ e lasagne al forno. Terminato il pranzo rivestiamo i nostri stracci fradici e ripartiamo. Guarda caso, piove!
Alle 18 e 45 siamo a Motteggiana, sede di un distinto Club nautico. Naturalmente ci considerano spazzatura e rifiutano di lasciarci mettere con i nostri sacchi a pelo in uno dei loro capannoni. Pensano, certo, che lasceremo pulci e pidocchi! Non sanno che sono ormai tutti annegati! Tentiamo in una trattoria che ha una baracchetta vicino, ma niente da fare.

Dopo 110 km e più di otto ore di voga, dobbiamo prendere in spalla i nostri pesanti sacchi e fare più di un km a piedi per raggiungere un alberghetto; l’Ancora d’Oro di Borgoforte, dove ci rimettiamo in forze con un’ottima mangiata.

Il lunedì mattina, dopo una nuova marcia e lo svuotamento della barca, si riparte finalmente senza pioggia, salvo qualche spruzzatina, che ci lascia indifferenti. Ci fermiamo all’una, prima di Sermide, su un sabbiale e stendiamo il solito sacco di plastica per tovaglia a parecchi metri dal Po. Abbiamo appena addentato i nostri panini che siamo costretti a scappare. Il livello del fiume sale velocemente e l’acqua ha raggiunto la nostra tovaglia. Riprendiamo a vogare allietati dagli “ò-lla” e “ò-llunga” di Paolo Uggè che , compreso nel suo ruolo di vecchio canottiere, si sente in dovere di “sgonfiarci” così per tutto il viaggio. Speriamo in un buon mal di gola, che invece si piglia Vincenzo.

Alla sera, dopo otto ore di voga e dopo aver piegato una scalmiera in una ben fatta manovra, siamo a Pontelagoscuro, alla canottieri Ferrara. Ci sistemiamo inizialmente in uno spogliatoio sotto la piscina; non si può dire che sia asciutto.
Romano scantona con uno zampirone e si infila a dormire in un settore di corridoio della copertura della piscina. Paolo Moroni, Vincenzo e Riccardo raggiungono un altro spogliatoio al piano superiore. Solo Uggè resta nel locale messoci a disposizione. Infastidito da zanzare e acqua alle quattro è in piedi e va a svegliare con schiaffetti affettuosi i tre del piano di sopra, che lo coprono di insulti.

Almeno una volta partiamo presto. Il fiume continua a crescere ed è coperto di schiuma gialla, rami, tronchi, piante intere che dovrebbero indurre il timoniere ad una continua attenzione. Naturalmente il timoniere di turno sonnecchia ed ogni tanto speroniamo qualcosa che va alla deriva. Ben ancorata è invece un boa con palo per i radar delle chiatte, che urtiamo violentemente, dato che il Moroni in quel momento è profondamente immerso in pensieri filosofici. La pioggia scende a brevi scrosci, ma il vento è diventato fortissimo e siamo costretti a stare molto sotto riva dove gli alberi ci riparano. Naturalmente la “media “ scende !

A Polesella facciamo una robusta colazione e compriamo il necessario per il pranzo che consumiamo a Papozze, di fronte al ramo del Po di Goro. Ci sentiamo quasi a Venezia.

Nel pomeriggio invece il vento aumenta ancora e quasi non si va avanti. Il Po ormai larghissimo, è in burrasca: le onde sorpassano il lungo paraonde e si rovesciano in barca. Siamo costretti varie volte a fermarci per svuotare, altrimenti si va a fondo. Non avremmo mai pensato di trovare simili onde in un fiume. Le pisciate fuori bordo, già difficoltose dato il tipo di imbarcazione, dove non si possono mettere i piedi sul fondo e data la buona volontà dei compagni che si muovono nel movimento opportuno, diventano tragiche.

Disgraziatamente a Volta Grimana ci troviamo sulla riva destra del fiume, mentre la conca è sulla sinistra. Attraversare con le onde di fianco non è da pensare; prese di punta ci entrano in barca. Dopo una sosta con animate discussioni (un tizio vorrebbe restare dove siamo ed andare a dormire dal prete), decidiamo di attraversare risalendo il fiume. Ci accorgiamo subito che spinti dal vento e dalle onde, benchè la corrente sia forte, teniamo una velicita superiore a quella della discesa; salvo qualche imbarcata, ci va bene; raggiungiamo la conca e ci infiliamo, con gran sollievo, nel canale. Alle 18 e 15 siamo a Donada, dopo nove ore e un quarto di voga e, a dire la verità, ci bastano. Ci sistemiamo alla locanda “Al Marinaio”, dove avevamo fatto una seria bevuta con il Dottor Martini due anni prima, mentre andavamo a Venezia con le canoe. Ultima medicazione al deretano di Riccardo detto ‘Pachito’ (non il deretano ma Riccardo), che nei giorni precedenti sembrava quello di un babbuino.

Il mercoledì mattina c’è il sole, sia pure con vento contrario. Il Canal Bianco, contrariamente a due anni prima, è pulito, senza erbe palustri. Attraverso le chiuse passiamo l’Adige e poi il Brenta. Finalmente sentiamo il classico odor di fogna della laguna intorno a Chioggia, e noi, con molta buona volontà, stabiliamo che è odore di salmastro.

A Chioggia acquisto di vettovaglie, che mangiamo subito dopo sui “murazzi” dove facciamo anche un veloce tuffo in mare. Troppe onde per uscire in mare e continuiamo all’interno dei “murazzi”. Costeggiamo i caratteristici abitati di Pellestrina, San Pietro in Volta, e raggiungiamo Malamocco alle 18,30. Avremmo dovuto arrivare a Punta Sabbioni, ma la remata controvento del giorno prima si è fatta sentire. Ci infiliamo in un canaletto che puzza più del Redefossi.

Siamo di ottimo umore per il sole e perché ci sentiamo in forma e progettiamo un rapido giro del bacino di San Marco, per il giorno dopo.
Il nostro umore sale ancora quando ci sediamo al tavolo di una trattoria con l’orrendo nome “Da Scarso” e dove invece mangiamo dieci qualità di pesci, una migliore dell’altra, debitamente innaffiate.

La mattina del giovedì doccia fredda, in senso stretto, oltre che in senso letterale : piove e tira vento. Avvolti nei nostri sacchi della spazzatura rientriamo in barca, brontolando contro Mino che ha avuto la bella idea della gita: forse ha fatto apposta a stare a casa. Del giro a Venezia non parla più nessuno, salvo un disfattista che lo vedrebbe volentieri come meta finale. Oltre a tutto il mare è mosso e non vediamo come attraversare il golfo di Trieste. Non arriviamo a darci remate, ma non possiamo però dire di avere molto amore reciproco in questo momento. Si va avanti.

Attraversiamo la bocca del Lido arenandoci un paio di volte, e dopo Punta Sabbioni imbocchiamo il canale per Grado. Un canale tutto curve e controcurve segnato dalle “bricolle”, cioè, pali per le imbarcazioni di maggior pescaggio. Noi naturalmente vogliamo tagliare le curve, rischiamo tutti momenti di lasciarci il timone, ci areniamo e facciamo una fatica da villani a remare nell’acqua bassissima.
A mezzogiorno piove a dirotto: ci infiliamo in un negozio di alimentari dove ingolliamo una lunga serie di panini. Sentiamo molto più spesso di prima la necessità di mangiare qualcosa, anche durante la mattina o il pomeriggio e ovviamo con biscotti e cioccolato.
Riprendiamo a remare sotto l’acqua e, durante uno dei soliti arenamenti fuori dalle “bricolle”, non notiamo un cartello per Grado. Vediamo, è vero, un canale sulla destra, ma Paolo Moroni decide categoricamente che è una bocca a mare. Remiamo per alcuni chilometri contro corrente a causa della marea che cala e sbuchiamo in laguna; siamo convinti sia quella di Marano e ci sentiamo soddisfatti della strada già fatta.

Purtroppo ad un certo punto vediamo dietro di noi, in lontananza, due campanili che assomigliano troppo a quelli di Burano e Torcello. La nostra soddisfazione cala molto. La laguna è completamente disabitata, nessuno a cui chiedere, anche le “bricolle” terminano e non sappiamo più dove andare. Finalmente vediamo una solitaria barca di pescatori e ci lanciamo all’inseguimento, mentre in fondo alla laguna compaiono delle “prismate” che la sbarrano completamente. La nostra domanda ai pescatori riceve in risposta un “indrio” a cui facciamo coro con espressioni non ripetibili in presenza di donne e bambini.

Dal fondo della laguna di Venezia ritorniamo, stavolta in favore di corrente, fino alla famosa bocca a mare e riprendiamo a vogare nel nostro canale a zig-zag , con 15 km in più nelle braccia. Finalmente raggiungiamo il Sile attraverso una vecchia chiusa manovrata a mano e dobbiamo risalire il fiume per ben 15 chilometri, tra due pareti di canne lacustri. Un motoscafo da nababbo, che sbuca lanciato da una curva, cerca di tagliarci in due, ma grazie ad una delle nostre rapidissime manovre, in cui ognuno rema per conto proprio, ce la caviamo.
A Jesolo Vecchia imbocchiamo un canaletto diritto, ma così stretto che dobbiamo ritirare i remi quando incrociamo delle imbarcazioni.
Altre conche e attraversiamo il Piave, che mormora al nostro passaggio, commovendoci molto.

Infine un altro canale, altre cannucce ed arriviamo vicini a Caorle alle sette di sera e dopo dieci ore di remo. Malgrado l’ora e mezza gettata sbagliando strada, il vento contrario e la pioggia, abbiamo ricuperato i km fatti in meno il giorno prima e ci sentiamo vicini al Trieste. L’unica preoccupazione è che il mare sia mosso e che ci si debba fermare a Grado. Abbiamo ancora due giorni ed il tempo può cambiare.

Mangiamo mica male alla trattoria “Emiliana” e veniamo ospitati da un vedovo con casa tirata a specchio. Colpito da questo, Paolo Moroni si astiene dall’allagargli completamente la casa mentre fa il bagno, come invece è capitato in tutti gli altri posti.

La mattina di venerdì si riparte sotto la pioggia per il solito canale tra le canne. Passiamo il Livenza ed il Tagliamento ed a mezzogiorno, mentre diluvia, ci fermiamo ad una capanna-trattoria“ da Gianni al Fogon” dove mangiamo dell’ottimo pesce alla brace con polenta bianca e, soprattutto ci asciughiamo noi ed i nostri stracci, al fogon. Dopo aver dato a Vincenzo il tempo di dedicarsi a bisogni vari in sporgenza da una chiatta, riprendiamo il viaggio sotto l’acqua e, dopo poco, raggiungiamo la laguna di Marano. Paolo Uggè sta dirigendo al timone e solo con una rapida “contro” evitiamo di affondare una barca con vecchietto urlante e saltellante. Fortunatamente parla dialetto veneto e noi possiamo andarcene convinti che ci abbia augurato ‘buon viaggio’.

Bella la laguna di Marano, con i indicazioni segnati da bricolle in un mare di canne da cui spuntano i caratteristici capanni in cannucce. Voli di anatre e di altri uccelli palustri si alzano dappertutto. Al termine della laguna Paolo Uggè comanda un “serrate” e poi chiede altri dieci colpi. Noi lo facciamo solo per poi esprimere i nostri sereni ed amichevoli giudizi su di lui. Altro canale e finalmente la laguna di Grado.

Vediamo un mare calmissimo e decidiamo di uscire finalmente dai canali che dovremmo percorrere ancora per parecchi chilometri, sino alla parte più interna del golfo di Trieste. In mare vi è ancora una buona discussione su principi di geometria e sul modo di seguire una costa per fare meno strada. Romano, dopo aver urlato che se gli altri non la piantano di rompergli i coglioni mentre timona, va a riva a nuoto, riesce a far arenare per l’ultima volta la barca. E’ uno strano mare che per centinaia di metri al largo è sempre bassissimo.

A questo punto Paolo Uggè è colpito da raptus, e noi poveri dementi dietro: “Visto che il mare è calmissimo, e che forse domani non sarà così e non potremo attraversare, perché non farlo subito!”, Alè! Subito a Trieste. Intravvediamo la costa opposta ad una distanza che giudichiamo di una decina di km. Un tizio in barca ci dice che sono trenta km belli belli; ma naturalmente non lo prendiamo sul serio.
Sono le 18 e voghiamo dalle otto del mattino, il sole sta scendendo. Non sappiamo bene verso quale punto della costa dirigerci. Non possiamo più avvisare la Capitaneria di porto perché abbiamo sorpassato Grado, ma si sa che nelle stupidate si è sempre pieni di perseveranza e così puntiamo sulla riva opposta.

Remiamo subito di buona lena, ma il ritmo continua ad aumentare coll’aumento del buio. Delle nubi nere hanno portato via l’ultima luce. Il nostro assieme è ormai perfetto, perché la fifa fa novanta! La riva opposta scompare del tutto e noi aumentiamo ancora le battute; ogni tanto si sente un “fioi me fa mal el cul”, soprattutto da Vincenzo che pare lo abbia più delicato degli altri in quel frangente.
L’unica pila che abbiamo è in fondo ad un sacco; nemmeno parlarne di ricuperarla! Per nostra fortuna, ad un tratto, dei potenti fari illuminano il castello di Miramare che, tra l’altro, è il punto più vicino. Tiriamo un respiro di sollievo e ci dirigiamo su quelli.

Dopo un’ora tiriamo un’altra filza di parolacce, perché questi fari non si avvicinano mai!
Riusciamo però a mantenere il ritmo ed in due ore e mezza percorriamo i 25 km e siamo sotto le rocce del Castello di Miramare.
Altra passeggiata di mezzora avanti e indietro sotto costa tra gli scogli, e finalmente troviamo un paesino con un porto pieno di grosse imbarcazioni da diporto. Infiliamo la nostra “Anna” sotto un pontile, arraffiamo i nostri sacchi ed alle nove meno un quarto scendiamo sulla costa Triestina. Siamo qui con un giorno di anticipo.

Troviamo un albergo, per raggiungere il quale facciamo circa mille gradini in salita; ci togliamo tutto il grasso nero che possiamo, con una doccia calda e ridiscendiamo sul molo per mangiare. Telefonata a Lodi a Visigalli che verrà a prenderci col carrello e poi allunghiamo le gambe sotto una “seria” tavola dove festeggiamo con numerose bottiglie la vittoria.

Il sabato abbiamo solo dieci km da fare e ce la prendiamo comoda: partenza tardi, remata da lavativi, bagno in mare e siamo in piazza dell’Unità. Foto con tutti i componenti che gonfiano petto e muscoli; se avessimo i mutandoni a mezz’asta e le calze con le giarrettiere meriteremmo un posto tra le vecchie glorie della Canottieri. Paolo Uggè tenta di farci fare una gita panoramica in barca lungo la zona industriale della città; gli facciamo gentilmente capire che abbiamo altre aspirazioni nella vita, ed alle 15 siamo allo zatterone dei Vigili del Fuoco di Trieste. Sono tutti vogatori, ci accolgono cordialmente e ci danno una camerata per la notte.

La sera, con Visigalli e Mino col figlio Alessandro (5 anni) arrivati da Lodi, i Vigili ci accompagnano a Muggia dove ceniamo molto bene.
La domenica mattina alle sei partiamo ed a mezzogiorno scarichiamo la jole alla Canottieri. Schivi per natura, sfuggiamo alla gran folla accorsa a riceverci e filiamo tutti a casa nostra.
L’”Anna” è tornata in buone condizioni e noi pure.
Ci sentiamo soddisfatti di aver percorso quasi 600 km senza preparazione su questo tipo di barca e di aver convissuto in buona armonia, senza mai picchiarci troppo forte.
Ci sentiamo molto più giovani e pronti, l’anno prossimo magari, per il Remo sino in Olanda, infarti permettendo !

PARTECIPANTI:
1) Abbruzzese Vincenzo – 40 anni – elettrotecnico.
2) Moroni Paolo – anni 29 – geometra.
3) Padovani Riccardo – 34 anni – impiegato.
4) Uggè Paolo – 42 anni – impiegato.
5) Vinzia Romano – 41 anni – impiegato e autore di questo racconto.
Imbarcazione: Jole da mare a 4 vogatori, con timoniere, denominata “ANNA”.
Sedili a carrello scorrevole- barca donata nel 1929 dalla Banca Mutua Popolare Agricola di Lodi
alla Canottieri Adda di Lodi – Scafo del peso di circa 150 kg con svariate fenditure a causa dell’usura e per il fatto che da oltre sette anni era rimasto inattivo entro un capannone.

Percorso: Lodi –Trieste pari a circa hm 570 effettuato a tappe, in 7 giorni. Ore effettive di voga 60.

 
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